MELONI ACCUSATA DI ESSERE LA CHEERLEADES DI TRUMP: SCONTRO IN AULA!

L’aula del Senato della Repubblica, cuore pulsante della democrazia italiana, si è trasformata ancora una volta in un’arena infuocata. In un clima già surriscaldato da settimane di dibattiti tesi e polarizzati, una singola frase, tagliente come una lama, ha squarciato il velo di formale compostezza, scatenando una tempesta politica che ha travalicato i confini di Palazzo Madama. Protagoniste di questo scontro frontale sono state la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e la senatrice del Movimento 5 Stelle, Alessandra Maiorino. L’accusa, lanciata con veemenza dalla senatrice pentastellata, è di quelle che lasciano il segno: Giorgia Meloni sarebbe nientemeno che la “cheerleader” di Donald Trump.
La scintilla è scoccata durante la fase delle repliche, un momento parlamentare spesso carico di tensione. Con un tono che non ammetteva repliche, la senatrice Maiorino ha puntato l’indice, non solo metaforicamente, contro la premier: “Anche oggi l’abbiamo dovuta vedere nelle vesti di cheerleader, e spero che ‘cheerleader’ si possa dire senza che qualcuno insorga, del presidente di un altro paese, invece che mantenere la schiena dritta e fare la capo del governo dell’Italia”. L’effetto è stato istantaneo. Dai banchi della maggioranza si è levato un muro di proteste, un boato di indignazione che ha costretto il Presidente del Senato, Ignazio La Russa, a intervenire con decisione per tentare, con fatica, di riportare l’ordine.
Ma cosa si nasconde davvero dietro questa definizione così colorita e, al tempo stesso, così politicamente pesante? L’espressione “cheerleader” evoca un’immagine di sostegno acritico, di tifo sfegatato e quasi servile. Accusare la leader di una nazione del G7 di essere la “ragazza pon pon” di un leader straniero, per quanto potente, significa mettere in discussione la sua autonomia, la sua statura internazionale e, in ultima analisi, la sovranità della nazione che rappresenta. La Maiorino ha toccato un nervo scoperto, quello delle alleanze internazionali e della postura dell’Italia sullo scacchiere globale, un tema su cui il governo Meloni ha costruito gran parte della sua narrazione.
L’attacco, peraltro, non è giunto come un fulmine a ciel sereno. La senatrice ha fatto un riferimento implicito ma chiaro alle parole pronunciate qualche tempo prima da Maurizio Landini, segretario della CGIL, che aveva definito la premier una “cortigiana” proprio in relazione al suo rapporto con l’ex presidente americano. È la prova che l’opposizione sta costruendo una narrazione precisa, un contrattacco mirato a dipingere Giorgia Meloni non come la leader forte e atlantista che si presenta al mondo, ma come una figura subalterna, affascinata e condizionata dalla destra populista americana incarnata da Trump. Un’immagine che stride con gli sforzi della premier di accreditarsi presso le cancellerie europee e l’amministrazione Biden come un partner affidabile e pienamente integrato nel blocco occidentale.
Il duello verbale, però, non si è esaurito qui. La senatrice Maiorino ha raddoppiato la posta, spostando il campo di battaglia su un altro tema incandescente: la questione israelo-palestinese. Con sarcasmo e durezza, ha demolito la politica del governo sul tema, definendola una “favoletta”. “Meloni in aula è venuta a raccontarci la favoletta che anche il suo ministro Tajani ci ha illustrato: quella dei 39 studenti palestinesi che stiamo formando e che un giorno diventeranno la classe dirigente della Palestina, e quindi forse la Palestina potrà essere riconosciuta”. La sua voce si è alzata, carica di sdegno: “Ma vi rendete conto delle baggianate che venite a raccontare in quest’aula e agli italiani? Davvero ci avete preso per bambini? La Palestina va riconosciuta oggi!”.

Questa seconda offensiva ha gettato ulteriore benzina sul fuoco. Ha messo in luce una delle fratture più profonde tra maggioranza e opposizione in politica estera. Da un lato, il governo Meloni persegue una linea di prudenza, di allineamento con la posizione statunitense, che prevede un sostegno a Israele e una soluzione a due Stati da costruire gradualmente, attraverso iniziative come la formazione di una futura classe dirigente palestinese. Dall’altro, il Movimento 5 Stelle, e parte della sinistra, spinge per un’azione immediata e simbolicamente potente: il riconoscimento dello Stato di Palestina ora, come atto politico per forzare una soluzione di pace e affermare i diritti del popolo palestinese.
L’aula era ormai una polveriera. A difesa della Maiorino è intervenuto il collega Marco Croatti, alzando la voce contro i banchi del centrodestra, in un crescendo di tensione che ha messo a dura prova la pazienza del Presidente La Russa. “Non c’è stato dileggio, può dispiacere, ma nessuno sta disturbando l’intervento della senatrice. Il tentativo di creare tensione oggi non funziona”, ha ammonito La Russa, cercando di isolare i focolai di protesta e permettere al dibattito di proseguire, pur consapevole che il clima era irrimediabilmente compromesso.
Ottenuti alcuni minuti aggiuntivi, Alessandra Maiorino ha sferrato l’affondo finale, rivolgendosi direttamente alla premier con parole che pesano come macigni. “Siamo abituati agli insulti che partono dai banchi di destra”, ha premesso, per poi concludere con un appello che suonava come un’ultima, definitiva accusa: “Le dico da italiana a italiana: vada in Europa per fare la Presidente del Consiglio della Nazione italiana e non la vice di Donald Trump”. Un colpo diretto, personale, che trasforma il dibattito politico in uno scontro sulla lealtà nazionale e sul ruolo stesso della figura del premier.
Lo scambio, concluso da un amaro commento di La Russa (“Tristezza…”), è emblematico della fase di estrema conflittualità che sta vivendo la politica italiana. Non si tratta più solo di divergenze programmatiche, ma di una contrapposizione di visioni del mondo, di identità e di valori. L’accusa di essere “cheerleader” o “vice” di Trump non è un semplice insulto, ma il tentativo di delegittimare l’avversario sul piano dell’identità nazionale e dell’autonomia decisionale. È un segnale di come la politica internazionale, e in particolare la figura divisiva di Donald Trump, continui a proiettare la sua ombra lunga sulla politica interna italiana, diventando un’arma potentissima nel gioco delle parti. Questo episodio non sarà dimenticato facilmente e lascerà cicatrici profonde nel tessuto già logoro del dialogo politico italiano.
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