L’appuntamento da sogno si trasforma in un reality show da incubo: l’agghiacciante trappola di ‘Daniel’

Il mondo digitale è un oceano di connessioni, un luogo dove la solitudine può essere alleviata con un semplice “swipe”. Per Maya, neolaureata in comunicazione all’Università di Abidjan, rappresentava una finestra su quella vita che sentiva di essersi persa, consumata tra biblioteche e aule universitarie. Dopo anni di studio intenso, il vuoto post-laurea si faceva sentire. Fu così che, più per noia che per reale convinzione, scaricò un’applicazione di incontri.
Tra i tanti profili anonimi e le conversazioni superficiali, uno catturò la sua attenzione: “Daniel”, 29 anni, imprenditore nel settore eventi, amante dell’arte e del jazz, residente nel quartiere più esclusivo della città. Le sue foto erano curate, il suo modo di scrivere affascinante, un misto di intelligenza, fascino e una rassicurante moderazione.
Per due settimane, le loro conversazioni diventarono un appuntamento fisso, fatto di messaggi vocali e chat fino a tarda notte. Daniel, con la scusa di una webcam di bassa qualità o di un imbarazzo a mostrarsi in pigiama, evitava abilmente le videochiamate. Un dettaglio che Maya, all’inizio, trovò quasi tenero, un segno di timidezza in un uomo così apparentemente sicuro di sé. Le raccontava dei suoi viaggi, della sua passione per i libri rari, dei suoi sogni di un grande festival d’arte. Maya, assetata di storie e di libertà, beveva ogni sua parola.
Quando arrivò l’invito per una cena “tranquilla” a casa sua, Maya esitò. L’idea di un incontro privato con un uomo conosciuto online era un campanello d’allarme. La sua coinquilina la mise in guardia, consigliandole prudenza. Ma Daniel fu persuasivo, promettendole un pasto preparato da lui, musica soft e un’atmosfera accogliente, lontana dal caos dei locali. Il bisogno di Maya di vivere qualcosa di “diverso”, di eccezionale, ebbe la meglio sulla cautela.
Il giorno fatidico, Maya scelse un vestito semplice e salì su un taxi diretta verso il quartiere chic di Cocodiangré. La villa era discreta, protetta da un imponente cancello in ferro battuto, nascosta in un vicolo tranquillo. Daniel la accolse all’apertura del cancello. Era più alto di quanto immaginasse, vestito casualmente con jeans e t-shirt. Il suo sorriso, però, non raggiunse mai veramente i suoi occhi, e il suo volto rimase parzialmente in ombra.
L’interno della casa fu il primo vero shock. Un silenzio innaturale la avvolse. Nessuna musica, nessun profumo di cibo. Solo un lungo corridoio poco illuminato e, alle pareti, quadri inquietanti: volti cancellati, figure mascherate. Daniel la invitò ad accomodarsi mentre lui “finiva di preparare”. Il disagio di Maya cresceva. Istintivamente, prese il telefono, ma il suo sguardo fu catturato da un altro smartphone sul tavolino.
Era identico al suo. E lo schermo era acceso. Il wallpaper era una foto di lei, scattata di spalle, in una strada che non riconosceva.

Il sangue le si gelò nelle vene. Fece per alzarsi, per chiedere spiegazioni, ma in quell’istante Daniel riapparve alle sue spalle, sorridendo e porgendole un bicchiere di succo. Con un gesto fluido, quasi distratto, spostò il telefono incriminato e cambiò argomento. Maya cercò di mantenere la calma, di razionalizzare, ma qualcosa si era irrimediabilmente rotto.
Inventò un’emicrania improvvisa, un bisogno urgente di tornare a casa. Ma quando si diresse verso la porta, la trovò chiusa a chiave. Daniel, con una calma terrificante, le disse che era “per i ladri”. Ogni pezzo di quel puzzle malato andava al suo posto: la casa sembrava disabitata, non c’era nessun odore di cucina, nessun segno di vita reale.
Su uno scaffale, notò un taccuino. Lo aprì di nascosto. Pagine ingiallite piene di nomi femminili, date, annotazioni e schizzi di silhouette. Ogni nome era seguito da un numero, come in una macabra classifica. “È per un progetto artistico”, disse Daniel, sorprendendola. La sua risata fu secca, priva di emozione.
La trappola era scattata. Maya iniziò a fargli domande banali, cercando di guadagnare tempo, di studiarlo. Ma lui era inafferrabile. E, cosa più spaventosa, sapeva tutto di lei. Dettagli che non aveva mai condiviso. Il nome di sua cugina, la scuola superiore che aveva frequentato, persino il suo piatto preferito, menzionato di sfuggita in un messaggio vocale settimane prima.
Capì. Non era stata scelta a caso. Era stata studiata, osservata, guidata in quella casa. Daniel non era un uomo solo in cerca d’amore. Era un predatore. E lei era la sua preda.
Mentre tentava di nuovo di raggiungere la porta, un altro “clic” metallico risuonò nel silenzio. Daniel era lì, davanti all’ingresso, l’espressione benevola sostituita da uno sguardo clinico, analitico. Non era più un affascinante imprenditore; era un carceriere.
La invitò a sedersi di nuovo. E poi, con una calma spettrale, iniziò a parlare della sua “passione”: la vulnerabilità umana, la solitudine nell’era digitale, il modo in cui le persone si espongono senza proteggersi. Parlava come un filosofo, un artista che giustificava la sua opera.
Quindi, le chiese di seguirlo. La portò in un corridoio buio, le pareti coperte di foto sfocate di altre donne. Aprì una porta. La stanza era buia, illuminata solo dalla luce fredda di tre monitor. Su quegli schermi, l’inferno. Video in loop di donne diverse, in stanze simili, che piangevano, urlavano o restavano immobili, paralizzate dal terrore. Maya riconobbe il volto di una ragazza la cui scomparsa aveva fatto notizia sui social media mesi prima.
“Anche loro cercavano qualcosa”, mormorò Daniel, con un sorriso soddisfatto. “Hanno cliccato. Sono venute. Volevano essere coraggiose. E ora sono parte di qualcosa di più grande”.
L’orrore divenne consapevolezza quando Daniel avviò un altro video. Una ragazza veniva rinchiusa in una stanza. L’inquadratura era dall’alto. Maya alzò lentamente lo sguardo. Sopra di lei, nel soffitto, una piccola lente nera la stava fissando.
Era filmata. Dal momento in cui era entrata. Forse da prima.
La sua vita privata, le sue confessioni, i suoi sogni… tutto era stato raccolto per questo. Daniel le mise una mano sulla spalla, un gesto d’affetto surreale. “Hai un’energia diversa”, le disse. “Sarai perfetta per il prossimo esperimento”.
Iniziò così il vero incubo. Non era solo prigionia fisica; era tortura psicologica. La casa era un labirinto tecnologico. Le luci si spensero, una luce rossa da “registrazione” si accese. “Il mondo ti sta guardando, Maya. Stanno aspettando”, sussurrò Daniel, prima di sparire.
Una voce registrata, femminile e rassicurante, la invitò a “giocare”. Un “test psicologico”. Fu costretta a camminare su un percorso luminoso, verso una porta nascosta che si aprì su una sala con uno schermo gigante. Le furono mostrati due volti: quello di una conoscente dell’università e quello di sua cugina. “Scegli”, disse la voce.
Rifiutandosi, scatenò un allarme. Un conto alla rovescia. “Scegli o subisci”. All’ultimo secondo, in preda al panico, urlò il nome di sua cugina, sperando di salvarla.
Il gioco si fece più oscuro. Una trappola nel pavimento, una scala verso il basso, in un sotterraneo umido. Lì, la voce di Daniel, ora brutale, le chiese se avesse “capito”. Le disse che il “pubblico” la reclamava, che la sua paura era un successo.
La rivelazione finale fu la più devastante. Una parete si rivelò essere uno specchio unidirezionale. Dietro il vetro, delle silhouette la osservavano. Un pubblico dal vivo, seduto come a teatro. Non era un uomo solo. Era un’industria. Una macchina organizzata con finanziatori, ingegneri e creatori, che trasformava la sofferenza umana in un prodotto.
Mentre l’oscurità tornava e un gas incolore riempiva la stanza, Maya perse i sensi. “A presto, Maya”, fu l’ultima cosa che sentì. “Non hai ancora visto niente”.
Il risveglio fu brutale, su un pavimento di cemento freddo. Era in un’altra cella. Ma questa volta, una porta era socchiusa. L’istinto di sopravvivenza prese il sopravvento. Si trascinò in un dedalo di tunnel, dove incontrò un uomo anziano, dall’aria stanca, che sosteneva di essere un ex dipendente e di volerla aiutare.
Le parlò di “qualcuno sopra Daniel”, di una mente che scriveva la storia nell’ombra. Le indicò una porta. Aria. Vera. Si ritrovò in un bosco, sotto la luna. Il vecchio richiuse la porta alle sue spalle. Maya corse. Corse come non aveva mai fatto, attraverso la foresta, finché non raggiunse una strada deserta.
Un pickup apparve. L’autista, un uomo di mezza età dall’aria gentile, si fermò. Maya crollò tra le sue braccia, balbettando. Lui la rassicurò, dicendo di conoscere una casa sicura lì vicino. Esausta, sconfitta, Maya accettò.
La casa era modesta, pulita. L’uomo le portò dell’acqua, la fece sedere. Sembrava finalmente salva. Ma mentre l’uomo si allontanava per “prendere delle bende”, una sensazione di déjà-vu la colpì. Guardò meglio la stanza. Dietro un’étagère, vide qualcosa. Cavi. Boîtier. La stessa, identica tecnologia della casa di Daniel.
L’uomo riapparve sulla porta. Ma non era più il gentile soccorritore. Era vestito di nero, lo sguardo freddo, calcolatore.
Era Daniel. Il vero Daniel.
La sua fuga. Il vecchio. Il salvataggio. Era tutto parte dello show. Un altro livello del gioco, un “momento d’eccezione” per il pubblico, come lo definì lui. Le disse che “questa stagione”, grazie a lei, stava battendo ogni record.
La porta era chiusa. Le finestre sigillate. Daniel accese gli schermi. E Maya vide il suo volto, in diretta, riflesso in ogni angolo della casa. Vide i commenti scorrere, i voti, le donazioni.
L’incubo non era finito. Era appena entrato nel capitolo successivo. Daniel si avvicinò, posandole una mano sulla spalla. “E ora, Maya”, sussurrò, “sarai tu a scrivere la suite”.
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