Il freddo di Trieste non è mai stato così tagliente come nel giorno in cui la tomba di Liliana Resinovich è stata riaperta. In un silenzio irreale, rotto solo dal lavoro cupo degli operatori e dai singhiozzi soffocati, la bara della donna di 63 anni è tornata alla luce. Un atto estremo, un “vilipendio”, come lo definirà l’uomo che si è sempre dichiarato il suo amore segreto. Ma un atto necessario. Perché la verità sulla fine di Liliana, per troppi anni sepolta sotto una coltre di dubbi e depistaggi, si rifiuta di rimanere tale. Quella che per mesi è stata frettolosamente etichettata come la tragica fine di una donna depressa, oggi ha un nome nuovo, inciso a fuoco nel fascicolo della Procura: omicidio.

Il caso di Liliana “Lilly” Resinovich è un labirinto di specchi, un dramma umano consumato tra le mura di una casa tranquilla e i sentieri ombrosi di un parco, con due uomini al centro della scena che raccontano due realtà inconciliabili.

Tutto ha inizio, o meglio, tutto finisce, la mattina del 14 dicembre 2021. Liliana esce dalla sua casa di via Verrocchio. Non porta con sé nulla: né il portafogli, né i documenti, né i suoi due telefoni cellulari. Lascia a casa persino la fede nuziale. Scompare nel nulla. Il marito, Sebastiano Visintin, un ex fotografo di 70 anni, ne denuncia la scomparsa solo in serata. Le ricerche scattano immediate, ma per settimane Liliana sembra essere stata inghiottita dalla nebbia di Trieste.

Il ritrovamento avviene il 5 gennaio 2022, in un luogo che aggiunge solo orrore al mistero. Il corpo di Liliana è nel boschetto dell’ex Ospedale Psichiatrico di San Giovanni, un’area isolata. È avvolto in due grandi sacchi neri dell’immondizia, uno infilato dall’alto e uno dal basso. La testa è sigillata in due sacchetti di plastica trasparente, stretti al collo. Una scena del crimine che urla violenza, eppure la prima autopsia spinge l’indagine verso un binario morto.

Il medico legale stabilisce che la morte è avvenuta per soffocamento, ma la data del decesso viene collocata a sole 48-60 ore prima del ritrovamento. Questo significa che Liliana, secondo quella prima perizia, sarebbe morta ai primi di gennaio, non il 14 dicembre, giorno della scomparsa. Dove è stata per quasi tre settimane? E come può una donna, descritta come vitale e piena di progetti, vagare per giorni per poi imbastire un suicidio così macchinoso e atroce?

Il marito, Sebastiano Visintin, sposa fin da subito la tesi del gesto volontario. Dipinge il ritratto di una donna “buona, dolce e gentile”, ma forse preda di una depressione nascosta. Una versione che scricchiola, che non convince. Le sue stesse dichiarazioni su quel 14 dicembre appaiono contraddittorie, i suoi orari incerti.

A questa narrazione si oppone con forza una voce, quella di Claudio Sterpin, 83 anni, ex atleta e “amico speciale” di Liliana. Sterpin irrompe sulla scena mediatica e investigativa con una storia completamente diversa. Lui e Liliana, racconta, vivevano una relazione intensa da anni. Non un flirt passeggero, ma un amore ritrovato, tanto che “Lilly” era pronta a cambiare vita. Proprio quel 14 dicembre, giorno della scomparsa, i due avrebbero dovuto incontrarsi. Liliana, secondo Sterpin, stava per lasciare Sebastiano. Aveva già cercato informazioni sul divorzio e pianificava di trasferirsi da lui.

“Liliana non si sarebbe mai uccisa, e certamente non in quel modo orribile,” ripete come un mantra Sterpin in ogni intervista, puntando il dito, neanche troppo velatamente, verso il marito. “Sebastiano sa tutto”, accusa. Il conflitto tra i due uomini diventa totale, pubblico, straziante. Si scoprirà persino che Visintin era a conoscenza di un legame passato molto profondo: intercettazioni riveleranno che, già negli anni ’90, Sebastiano sapeva che Liliana era rimasta incinta di Claudio e che l’aveva accompagnata ad abortire. Sapeva, ma ha taciuto.

La Procura di Trieste, forte di quella prima autopsia, chiede l’archiviazione per suicidio. Ma il fratello di Liliana, Sergio Resinovich, e lo stesso Claudio Sterpin, tramite i loro legali, si oppongono con ogni forza. Troppe cose non tornano. Il tempo della morte, le modalità del ritrovamento, l’assenza di un movente credibile per il suicidio. Il Giudice per le Indagini Preliminari accoglie i loro dubbi e rigetta l’archiviazione, ordinando un supplemento d’indagine. È la prima crepa nel muro del silenzio.

La svolta arriva con una decisione drastica: la riesumazione del corpo. Un passo doloroso, ma fondamentale. Il caso viene affidato a chi, in Italia, è considerata un’autorità assoluta nella medicina legale: la professoressa Cristina Cattaneo, direttrice dell’Istituto di Medicina Legale di Milano, nota per aver lavorato ai casi più complessi, da Yara Gambirasio a Stefano Cucchi.

Ed è qui che la storia raccontata nel breve video virale trova il suo contesto. La scena descritta è quella della riesumazione. Sebastiano Visintin è presente, descritto in lacrime, un uomo “fisicamente dilaniato” che mormora ai giornalisti di “avere paura”. A pochi metri, nascosto tra i cipressi del cimitero di Sant’Anna, c’è anche Claudio Sterpin. Non vuole farsi vedere, ma è lì. E compie un gesto che racchiude tutto il dramma. Lascia sulla lapide una rosa rossa e un biglietto.

Il contenuto di quel biglietto, menzionato nel video con l’acronimo “AM” (Amore Mio), è una pugnalata: “Scusa amore mio per il vilipendio che subisci, indispensabile per scoprire la verità”. È l’ammissione di un dolore necessario, la profanazione di un corpo amato in nome di una giustizia negata. Claudio, con quel gesto, ribadisce la sua battaglia: non è stato suicidio, e lui dimostrerà la sua innocenza e la colpevolezza di altri.

Le analisi della professoressa Cattaneo sono un terremoto. La sua “super perizia” ribalta ogni certezza precedente. Liliana Resinovich, stabilisce l’esperta, è stata uccisa. È morta per “asfissia meccanica”, ovvero soffocata, e non per un generico “scompenso cardiaco” come detto inizialmente. Ma il dato più sconvolgente è un altro: Liliana è morta il 14 dicembre 2021, lo stesso giorno in cui è scomparsa.

Questa conclusione cambia tutto. Non ci sono state tre settimane di fuga o di prigionia. L’omicidio si è consumato in poche ore. Qualcuno l’ha aggredita, forse alle spalle, e l’ha soffocata. Il suo corpo è stato poi conservato in un luogo freddo e asciutto (escludendo l’ipotesi del congelamento) per quasi tre settimane, prima di essere trasportato e abbandonato nel parco di San Giovanni.

Di fronte a questa nuova, terribile verità, la Procura di Trieste non ha potuto fare altro che cambiare rotta. Il fascicolo è stato riaperto, e questa volta l’ipotesi di reato è omicidio volontario. E c’è un indagato: Sebastiano Visintin. L’uomo che per anni ha parlato del suicidio della moglie è ora sospettato di averla uccisa.

Il giallo di Liliana Resinovich è un affresco oscuro della provincia italiana, una storia di amori nascosti, di bugie presunte e di una verità che ha dovuto essere letteralmente disseppellita. La riesumazione, quell’evento “choc” che ha scosso Trieste, non è stata la fine di un incubo, ma l’inizio di un nuovo capitolo giudiziario.

Ora, mentre gli inquirenti cercano di capire chi abbia potuto aiutare l’assassino (Sterpin è convinto non sia stata opera di una persona sola) e dove sia stato nascosto il corpo di Lilly per venti giorni, restano le immagini di quel giorno al cimitero. Resta il dolore di due uomini nemici, uniti solo dalla presenza di fronte a quella bara. E resta, sopra ogni cosa, il biglietto di Claudio: “indispensabile per scoprire la verità”. Una verità per cui Liliana, dopo la morte, ha dovuto subire anche l’ultimo, straziante oltraggio.