L’Italia dichiara guerra: Meloni schiera l’esercito, umilia la Germania e spinge l’UE sull’orlo della disintegrazione

L’Europa è sull’orlo di una crisi di nervi. In un atto di sfida che passerà agli annali dell’Unione Europea, l’Italia, sotto la guida del suo Primo Ministro Giorgia Meloni, ha smesso di chiedere il permesso. Sta agendo. Il governo italiano ha dichiarato una “guerra unilaterale all’immigrazione clandestina”, passando dalle promesse vuote all’azione con una rapidità e una decisione che hanno colto di sorpresa Bruxelles. Basta compromessi. L’esercito è ora nel Mediterraneo, le frontiere si stanno chiudendo e un messaggio agghiacciante è stato inviato a Germania e Francia: l’Italia non obbedirà più.
Non si tratta più di una semplice politica migratoria; è una ribellione aperta, una resa dei conti che potrebbe ridisegnare la mappa del potere in Europa o addirittura distruggerla.
Al centro di questa tempesta c’è una donna: Giorgia Meloni. Da quando è salita al potere, ha orchestrato un radicale cambio di paradigma. La nuova dottrina romana è semplice: la difesa della nazione ha la precedenza sulle direttive di Bruxelles. E per la prima volta, questa dottrina è sostenuta dall’azione militare. Navi da guerra, droni e unità della guardia costiera hanno ricevuto l’ordine di intercettare le imbarcazioni dei trafficanti prima ancora che raggiungano le acque territoriali italiane.
I metodi sono diretti, alcuni dicono brutali. Le imbarcazioni vengono individuate, respinte e neutralizzate. Ci sono segnalazioni di motori deliberatamente distrutti o gettati in mare per impedire ai trafficanti di andarsene. È una strategia di deterrenza attiva, ben lontana dalle operazioni di salvataggio prevalenti fino ad ora.
Organizzazioni non governative (ONG), un tempo celebrate, sono ora trattate come avversarie. Navi iconiche come la Sea-Watch 3 si vedono negato l’accesso ai porti italiani. Le violazioni comportano multe colossali, superiori a 900.000 euro, e pene detentive. Meloni non si è fermata qui: ha inviato una “lettera incendiaria” alla SPD tedesca, minacciando di tagliare tutti i finanziamenti pubblici italiani alle ONG con sede in Germania che, a suo dire, incoraggiano il traffico di esseri umani.
Questa politica, inquadrata da una nuova legge sulla protezione delle frontiere, ruota attorno a un concetto audace: l’”esportazione” dei confini italiani. Roma ha investito molto in accordi con paesi come la Libia e la Tunisia, finanziando e addestrando le loro guardie costiere per fermare le partenze alla fonte.
L’Italia ha fatto buon uso del suo denaro nella sua politica. Il bilancio destinato alla protezione delle frontiere ammonta a 5 miliardi di euro all’anno. A titolo di confronto, la Germania, con il doppio della sua potenza economica, spende solo 1,5 miliardi per la protezione dei propri confini.
E i risultati, dal punto di vista italiano, sono spettacolari. Nel giro di un anno, gli ingressi illegali sono diminuiti del 60%, passando da 157.000 a 66.000. Un successo che, paradossalmente, solleva anche la Germania, ma che ha scatenato la furia di Bruxelles.
L’Unione Europea, vedendo uno dei suoi membri agire da solo con tanta efficienza, ha tentato di riprendere il controllo nel modo più burocratico possibile. Ha presentato un nuovo “patto migratorio”. Il cuore di questo patto? Un “meccanismo di solidarietà obbligatorio”. Niente più volontariato: a ogni Paese verranno imposte quote di migranti, senza negoziazione. Quelli che si rifiuteranno, come l’Ungheria o la Polonia, vedranno i loro fondi europei congelati.

Peggio ancora, agli occhi di Roma, il patto prevede la creazione di una “Camera europea per l’asilo” in Lussemburgo, un’entità sovranazionale in grado di ribaltare le decisioni dei tribunali nazionali in materia di asilo. Per Meloni, questa è stata “la goccia che ha fatto traboccare il vaso”. Ha pubblicamente definito il piano “un affronto alla democrazia italiana”. Si è trattato di una dichiarazione di guerra istituzionale, e Meloni ha reagito con formidabile intelligenza politica.
La sua controffensiva si è sviluppata su due fronti. Innanzitutto, una mossa tattica: mentre l’UE la accusava di xenofobia, ha fatto trapelare la notizia che l’Italia avrebbe accolto 500.000 lavoratori stranieri regolari . Questo “colpo da maestro” ha diviso la sinistra europea, che improvvisamente non è stata in grado di attaccarla contemporaneamente come “anti-immigrazione” e “anti-lavoratori”.
La seconda fase è stata lo scontro diretto. Durante una tesa riunione del Consiglio europeo, il cancelliere tedesco (fittizio, secondo il video) Friedrich Mertz avrebbe dichiarato con arroganza: “L’Italia deve capire il suo posto nell’ordine europeo”. La risposta di Giorgia Meloni è stata gelida e immediata: “Signor Mertz, l’Italia non è il parco giochi della Germania. Siamo un Paese con una storia millenaria”. Secondo fonti interne, Mertz sarebbe rimasto senza parole, mentre gli altri delegati sorridevano. L’asse del potere si era, per un attimo, spostato da Berlino a Roma.
Questa ribellione ha sconvolto il continente, dividendo l’Europa in due. Da una parte c’era il blocco di Bruxelles, guidato da Ursula von der Leyen, descritta come una “burocrate non eletta” a capo di 60.000 funzionari pubblici. La Germania e la Francia di Macron si sono schierate al suo fianco, condannando l’unilateralismo dell’Italia. La francese Marine Le Pen ha colto l’occasione, accusando Macron di aver dimostrato che “la sua lealtà non è rivolta alla Francia, ma a Bruxelles”.
D’altro canto, attorno a Meloni si è formato un “fronte di nazioni”. In Italia, il suo sostegno è esploso: il 77% degli italiani, sindacati compresi, la sostiene, uniti sotto il grido “il nostro premier difende la patria”. All’estero, Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca le hanno dichiarato la loro solidarietà. Viktor Orbán l’ha persino definita la “difensore delle nazioni europee”. Più discretamente, Spagna, Svezia e Danimarca applaudono la sua resistenza.
Di fronte a questa rivolta, Bruxelles ha schierato l’artiglieria pesante. La Commissione minaccia sanzioni, congela i fondi per la ripresa e persino attiva l’articolo 7, la “bomba nucleare” dell’UE che priverebbe l’Italia del diritto di voto.
Ma è una strategia che potrebbe rivelarsi suicida. Ogni minaccia da Bruxelles non fa che rafforzare la “narrazione vittimistica” di Meloni in Italia. L’umore nel Paese sta cambiando. Mentre sei mesi fa l’idea di un referendum sull’UE era marginale, ora è sostenuta dal 42% degli italiani.
Ed è qui che sta il vero panico a Bruxelles. Un’”ItalExit” non sarebbe una “Grexit”. L’economia italiana è tre volte più grande di quella greca. Un’uscita non sarebbe un problema; sarebbe un terremoto che distruggerebbe l’alleanza e probabilmente l’euro. I social media sono già infuocati con gli hashtag #ItalExit e #MeloniARaison.
Sul campo, la strategia italiana non è priva di sfide. Il progetto di punta del centro di detenzione in Albania, progettato per elaborare 36.000 domande all’anno, si sta rivelando un salasso finanziario. Il costo iniziale di 700 milioni di euro sarebbe quasi raddoppiato. Inoltre, la Corte di Giustizia dell’UE ha inflitto a Roma una grave battuta d’arresto dichiarando illegale la lista dei “Paesi sicuri” stilata dall’Italia, rendendo praticamente impossibili i trasferimenti verso l’Albania.
Anche la guerra contro le ONG si sta intensificando. La nave Aurora della Sea-Watch è stata fermata per 60 giorni in Sicilia e la Mediterranea è stata multata di 10.000 euro. Ma per il governo Meloni, questi ostacoli legali e finanziari sono solo la prova che il sistema europeo è destinato a fallire.
Lo scontro è ormai totale. Non si tratta più di gestire i flussi migratori. È una battaglia per l’identità, il controllo e il futuro stesso del progetto europeo. L’Italia, culla dell’Impero Romano, con i suoi 7.900 km di coste, ha deciso che non sarà più il “tappeto di benvenuto” dell’Europa.
Due visioni si scontrano: quella di un’Europa federale gestita dai burocrati di Bruxelles e quella di un’Europa di nazioni sovrane difese da Roma. La questione non è più se il sistema crollerà, ma chi cederà per primo: Meloni o Bruxelles?
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