Non solo la malattia? Rivelati gli ultimi, sconvolgenti dettagli sulla vita del vicedirettore del TG5.

L’annuncio è arrivato come un pugno nello stomaco, in una mattina d’autunno che all’improvviso è diventata più fredda. Il 21 ottobre 2025, Claudio Fico, il vicedirettore del TG5, l’uomo che per anni è stato la colonna portante e silenziosa del telegiornale più seguito d’Italia, se n’è andato. A 63 anni. La notizia ufficiale, quella diramata dai canali ufficiali di Mediaset e riportata con composta commozione dai suoi colleghi, parla di “una lunga malattia”. Una formula pulita, decorosa, che chiude ogni discorso.
Ma è stata davvero solo la malattia?
Mentre Cologno Monzese si chiude in un lutto composto e le parole di stima del direttore Clemente Mimun e dei colleghi rimbalzano sui social, c’è un’altra storia che serpeggia. Una storia fatta di sussurri, di sguardi stanchi e di verità non dette. Una storia che questo articolo intende raccontare. Perché dietro il cordoglio di facciata, si nascondono dettagli sconvolgenti sulla vita di un uomo che, forse, è stato consumato da qualcosa di molto più implacabile della malattia stessa: il sistema che ha servito con lealtà fino all’ultimo giorno.
Claudio Fico non era un uomo da copertina. Non cercava la telecamera. Era l’opposto. Era il motore instancabile che lavorava nell’ombra, l’uomo che faceva “girare” la macchina complessa del TG5. Un vicedirettore non è solo un giornalista; è un manager, uno stratega, un cuscinetto tra la redazione e le pressioni verticistiche, e soprattutto, è l’uomo che non stacca mai. Mai.
“Ufficialmente, Claudio era malato da tempo. Ma la verità,” ci confida una fonte interna alla redazione, che chiede l’anonimato più assoluto per paura di ritorsioni, “è che Claudio era stanco. Stanco in un modo che la gente normale non può capire”.
Ed è qui che la versione ufficiale inizia a mostrare le sue crepe. La “lunga malattia” è la fine della storia, non l’inizio. Su quale terreno ha attecchito questo male? La risposta, secondo chi lavorava al suo fianco, è una sola: lo stress. Uno stress disumano, costante, un logorio quotidiano che è diventato, giorno dopo giorno, un killer silenzioso.
Riveliamo qui, per la prima volta, la realtà della vita di Fico negli ultimi anni. Non era solo lavoro. Era una missione totalizzante. “La sua giornata iniziava alle 5 del mattino con le prime agenzie e finiva dopo la mezzanotte, con l’ultima telefonata per controllare che l’edizione della notte fosse a posto,” racconta un altro collega. “Non staccava mai. Il telefono era un’estensione della sua mano. Anche in vacanza, se mai riusciva a prenderla, era lui il punto di riferimento per ogni crisi.”
Questo non è giornalismo, è una condanna. Una vita vissuta perennemente in trincea, senza mai un attimo di tregua. E negli ultimi mesi, le cose erano peggiorate. Voci interne parlano di riorganizzazioni aziendali, di budget da tagliare, di pressioni sempre più forti per mantenere gli ascolti alti in un panorama mediatico che è diventato una giungla. Fico, nel suo ruolo di vicedirettore, era l’uomo che doveva assorbire questi colpi. Doveva filtrare la pressione, proteggere la sua squadra, ma chi proteggeva lui?
“Lo abbiamo visto cambiare,” continua la nostra fonte. “Sempre gentile, sempre un signore, ma il sorriso era più tirato. Lo vedevi che portava il peso del mondo sulle spalle. Quando gli dicevi ‘Claudio, rallenta, prenditi una pausa’, lui scuoteva la testa e diceva ‘non si può, c’è da fare’”.

Non era solo la malattia, dunque. Era il sistema. Un sistema che ti chiede tutto, che ti spreme fino all’ultima goccia di energia e poi, quando cadi, ti onora con un comunicato stampa commosso.
Lo “sconvolgente dettaglio” non è un segreto oscuro o un complotto, ma una verità molto più terribile perché è sotto gli occhi di tutti: la normalizzazione di ritmi di lavoro insostenibili. Claudio Fico era, secondo molti, una vittima di burnout cronico, una condizione che la medicina moderna ha dimostrato essere la porta d’ingresso per malattie ben più gravi. Lo stress cronico abbassa le difese immunitarie, infiamma il corpo, lo rende vulnerabile.
“La sua battaglia finale,” ci dice in lacrime un’amica di famiglia, “non è iniziata quando è entrato in ospedale. È iniziata anni fa, in quelle redazioni illuminate al neon, tra un’edizione straordinaria e l’altra, tra una crisi politica e una finanziaria. Lui ha dato letteralmente la sua vita per quel telegiornale.”
E allora, cosa è successo veramente negli ultimi giorni? È successo che un corpo, già provato da anni di adrenalina tossica e di sonno insufficiente, non ha più avuto la forza di combattere. La malattia è stata solo l’esecutore materiale di una condanna scritta molto tempo prima.
Questa non è un’accusa a Mediaset in quanto tale, ma a un intero modo di concepire il lavoro ai vertici. Un mondo dove “dedizione” è sinonimo di “autodistruzione” e dove “professionalità” significa annullare sé stessi. Claudio Fico era un professionista d’altri tempi, un uomo che credeva nel dovere prima che nel diritto (soprattutto al riposo). E il sistema se n’è approfittato.
Oggi tutti piangono “l’amico”, il “maestro”, il “collega straordinario”. Ma quanti di quelli che oggi versano lacrime si sono chiesti, negli ultimi anni, se quell’uomo stesse davvero bene? Quanti si sono offerti di prendere un po’ del suo carico?

La verità è che la morte di Claudio Fico è una tragedia annunciata. Non è stato “solo” un male incurabile. È stato il risultato finale di un logorio implacabile. È stato il prezzo che ha pagato per essere il migliore nel suo campo.
Mentre il TG5 continua ad andare in onda, impeccabile come sempre (perché “the show must go on”, lo spettacolo deve continuare, anche e soprattutto sul dolore), resta una domanda amara. Oltre alle corone di fiori e ai messaggi di cordoglio, ci sarà una vera riflessione? O si sta già cercando il prossimo “professionista instancabile” pronto a sacrificarsi sull’altare dell’audience?
Claudio Fico se n’è andato. Ufficialmente, per una malattia. Ma chi lavorava al suo fianco sa che la storia è molto più complessa. E molto più tragica. È la storia di un uomo buono, amato da tutti, che è stato lasciato solo a combattere una guerra su due fronti: uno contro il male che lo divorava da dentro, e l’altro contro un mondo del lavoro che non conosce la parola “pietà”. E ha perso.
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